“Le piccole cose salveranno il mondo”. Dialogo con Dan Guterman, il creatore di Carol e la fine del mondo
Ero stesa sul divano abbastanza depressa e stavo scrollando la pagina home di Netflix. A un certo punto vedo il trailer di una serie che forse non avrei mai scelto di guardare, perché è una serie animata, anche se per adulti, e di solito non mi piacciono. Si chiama Carol e la fine del mondo.
Insomma, è successo che l’ho divorata, come spesso accade con le belle serie di Netflix. Il creatore si chiama Dan Guterman, sceneggiatore di Hollywood che ha lavorato anche per Community e Rick and Morty, vincitore di due Emmy Awards, nel 2013 per The Colbert Report e nel 2018 per la terza stagione di Rick and Morty.
Dopo aver visto Carol e la fine del mondo, ho capito una cosa importantissima riguardo alla mia vita, che ovviamente non vi dirò. Sono andata a letto, ma non riuscivo a dormire, ero troppo eccitata. Allora sono tornata in salotto, ho riacceso il telefono, ho cercato il nome dello sceneggiatore su Internet, l’ho trovato su Instagram, e alle due del mattino gli ho scritto: grazie per la tua fantastica Carol, è stata come un’illuminazione, davvero, sei un genio. Lui mi ha risposto poco dopo, da Los Angeles; mi ha ringraziato molto, è stato gentile. La mattina dopo mi sono detta che dovevo fare qualcosa, e allora gli ho riscritto e gli ho proposto un’intervista, ed eccoci qui.
Ma alla fine, cos’è che mi ha fatto innamorare così tanto di Carol e la fine del mondo? La sua autenticità, il suo senso del vero, la mancanza di banalità, l’intelligenza, la sensibilità. Carol e la fine del mondo parla di gente qualunque e si rivolge a gente qualunque, a noi, a chi non vuole rendere a tutti i costi la propria vita un’esperienza speciale, oltretutto secondo standard che non sono nemmeno i nostri e che vengono imposti dall’esterno. Carol è una donna di mezza età che scopre che il mondo sta per finire in stile Melancholia di Lars von Trier, cui rimangono pochi mesi per “godersi la vita”. E lei che fa? Semplicemente non impazzisce, non si deprime, non dà sfogo a ogni sua sordida fantasia. Decide di continuare a vivere una vita normale…
Bella trama, no? Sì, è una delle storie più interessanti che abbia visto negli ultimi tempi, perché Carol sono io, Carol rappresenta molti di noi, Carol è cosa rara, una persona che non tenta in tutti modi di migliorare se stessa o di cancellare i propri difetti.
Questa serie è anche una riflessione utile e controcorrente sul concetto di consapevolezza, sul significato del vivere il momento presente. Carol è una sorta di esistenzialista, ma più consapevole di tanti altri. Ama se stessa e tiene molto alle persone intorno a sé, ma in un modo tutto suo, personale, sincero. In attesa della fine del mondo, non sogna di scalare l’Everest o di fare sesso sfrenato, semplicemente sceglie di esistere, nel miglior modo possibile, e cioè il suo, perché nessuno può e dovrebbe insegnarci come vivere.
Chi è Carol Kohl?
“Solitamente nessuno scrive una storia su un personaggio come Carol. Silenziosa, ansiosa, senza pretese, timida. Una piccola amabile donnina a forma di pera che passa le serate da sola a consumare cene surgelate. Eppure è avvincente da guardare. Carol è un promemoria su un post-it, un metronomo affidabile. Ed è divertente. Divertente in un modo diverso dagli altri personaggi della tivù. Divertente per carattere, per il suo essere tridimensionale, reale, viva. Sono sempre stato attratto dai personaggi introspettivi e dalle storie con conflitti interiori e volevo davvero scrivere uno spettacolo su qualcuno che intraprende un viaggio esistenziale. Volevo buttare giù i miei pensieri e sentimenti su cosa volesse dire sentirsi soli, sentirsi paralizzati, perdersi. E quando abbiamo iniziato a scrivere l’episodio pilota, a creare questo mondo, e all’interno di questo mondo a creare questo personaggio, abbiamo subito capito che c’era una sola persona che poteva interpretare Carol. Ho incontrato Martha Kelly per la prima volta nell’estate del 2002 al Just For Laughs Festival di Montreal. Siamo usciti insieme… due persone scomode a una festa di settore. Defilate, in attesa della fine della serata. E il modo in cui parlava, il modo in cui pensava, la sua capacità di esprimere le deviazioni e i vicoli ciechi della vita, mi sono rimasti impressi, tanto che a metà della stesura del pilota – un decennio e mezzo dopo – le ho immediatamente inviato alcune pagine della sceneggiatura, chiedendole se fosse interessata a interpretare il ruolo principale. È ancora difficile da credere, ma sorprendentemente, ha detto di sì. Martha ha capito immediatamente cosa stavamo cercando di fare con lo spettacolo, il tipo di storia che volevamo raccontare. E così fu a bordo”.
Perché per raccontare questa storia hai avuto bisogno della fine del mondo? Te la immagini proprio così?
“Penso di non aver voluto fare uno spettacolo sulla fine delle cose. L’obiettivo è sempre stato l’opposto. Carol parla di come iniziano le cose, di come prendono forma, di come si costruiscono e crescono; di come si sviluppano lentamente nel tempo; di come vengono stabilite le connessioni e di come viene trovato lo scopo. Volevo fare qualcosa che celebrasse la vita, il complicato disordine della vita, con tutte le sue brutture e imperfezioni. Volevo realizzare una serie che fosse edificante e appassionata. Volevo fare uno spettacolo che fosse dolce, caldo, onesto e preciso. Abbiamo costruito un mondo ricco e complesso, ma lo vedi solo mentre passa veloce sullo schermo e fa capolino tra gli spazi vuoti e le crepe delle storie che stiamo cercando di raccontare. È una struttura perfetta per noi. Argilla da modellare, sfumature. Qualcosa che arricchisce e caratterizza le storie dei nostri personaggi ma che non distoglie mai l’attenzione.
Per noi l’equilibrio è sempre stato: l’inevitabile giorno del giudizio sullo sfondo; Carol e il suo viaggio in primo piano.
Il viaggio di Carol è l’obiettivo principale della serie. Eravamo interessati a raccontare una storia esistenziale piuttosto che una di fantascienza ricca di trama, anche se una influenza molto l’altra. La fine del mondo incombe nel racconto. È impossibile da ignorare. Impossibile scappare. Ma viene raramente menzionata, è solo uno strato in più, un rivestimento in più, un peso in più sui nostri personaggi e su ciò che stanno attraversando. Qual è la storia umana essenziale, senza fronzoli e intima al centro di tutto? Questo è ciò che in fondo ci interessava.
Inoltre, per noi, e questo è talmente ovvio che non dovrei nemmeno menzionarlo, Keppler 9-C era sia trama che metafora. C’è un enorme pianeta che sfreccia verso la Terra, verso la vita di ognuno di noi. Per alcuni mancano 50 anni, per altri 25 e per altri ancora soltanto 10. Ma è lì che sta arrivando ed è sempre nei nostri pensieri. Qualcosa con cui tutti un giorno dovremo fare i conti”.
Quanto c’è di te in Carol o in altri personaggi?
“Penso che sia impossibile separarsi completamente dalla propria scrittura. Non importa quanto ci provi, i tuoi desideri, atteggiamenti, preoccupazioni, ansie e traumi trovano sempre il modo di penetrare nel lavoro che stai svolgendo. Ma è questo che ti rende diverso da chiunque altro nella scrittura. Quindi, c’è molto di me in Carol, molto di me in Donna e molto di me anche in Luis. Lo stesso vale per il mio co-sceneggiatore, Kevin Arrieta. Ha avuto un ruolo importante nel processo di scrittura, e ci sono parti del nostro cast principale che appartengono esclusivamente a lui, alla sua psiche, al suo spirito e alla sua anima. Il DNA dello show sarebbe molto diverso senza Kevin. Il progetto in sé, però, il seme che ha messo radici ed è diventato Carol e la fine del mondo, proviene da un luogo personale. Una notte, addormentandomi, ho capito una cosa. Mi sono reso conto che se sapessi che il mondo sta per finire, non vorrei viaggiare, fare paracadutismo o correre nudo per le strade. Vorrei invece semplicemente completare e ripetere il mio ciclo. Ancora e ancora, senza dover affrontare ciò che avrei voluto dalla vita. Facendo il bucato, pagando le bollette, andando a lavorare, rimanendo distratto, per quanto umanamente possibile.
E proprio quell’istinto e quella paura, una volta cresciuti, sono fioriti e diventati lo spettacolo. Uno spettacolo sulla negazione di fronte all’annientamento. Uno spettacolo sulla fine del mondo che non riguarda realmente la fine del mondo. Uno spettacolo sulla fuga e sul ritrovare in qualche modo la propria strada”.
Ti è capitato di vedere l’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days? Ciò che accomuna i protagonisti della tua serie e del film di Wim Wenders, è la capacità di vedere, la necessità di erigere un elogio alla normalità, ai giorni comuni, alla vita quotidiana. Credo che la tua Carol, un po’ come un “uomo senza qualità” dei tempi moderni, abbia colto più di molti altri il senso di tante cose, di ciò che conta. Che cos’è per te un giorno perfetto? E come passeresti, tu, gli ultimi giorni su questa Terra?
“Una giornata perfetta – penso – è fregarsene di ciò che pensano gli altri. È qualcosa con cui lotto quotidianamente. Come sono percepito. Come viene percepito il mio lavoro. Occupa molti dei miei pensieri, molto del mio tempo – più di quanto voglia ammettere – e vorrei essere libero da quella pressione. Quindi, per me, il giorno perfetto sarebbe quello in cui il parere degli altri – degli estranei – e ciò che pensano, non entri affatto nei miei pensieri. Per quanto riguarda il modo in cui trascorrere i miei ultimi giorni sulla Terra, penso che prenderei la strada di Carol – o forse dovrei dire che Carol ha preso la mia strada. Vorrei lavorare, essere preoccupato, essere distratto dalla fine e da tutto ciò che comporta.
Almeno all’inizio, probabilmente, proverei ad attenermi al rituale e alla routine, almeno per un po’. Fare la spesa. Lavanderia. Pagare le bollette. Ma penso che alla fine sceglierei di trascorrere il tempo che mi rimane con le persone che amo e che contano per me”.
Quanto è importante l’ironia in questa storia? Cosa salverà il mondo? L’umorismo o la bellezza?
“L’ironia, per esempio, non è una componente importante in Carol. La serie non è cinica né sarcastica. Non è amara o pessimista o ironica. Carol e la fine del mondo è molto serio. È molto sincero. E con tutto il cuore è onesto. È gentile. Carol vive in un mondo pieno di sogghigni e scherni, ma decide con orgoglio di essere gentile. Per quanto riguarda cosa salverebbe il mondo, non so se ho una risposta davvero valida. Ma questo spettacolo – Carol – è incentrato sulla connessione, e io credo fermamente nel potere della connessione e nella sua componente salvifica. Sapere che non sei solo in questo il mondo, è una cosa potente, e trovare la propria tribù, trovare la propria gente, è già qualcosa di sacro.
Questo, onestamente, è il vero motivo per cui creo cose. Il motivo per cui scrivo. Il motivo per cui
provo a fare arte. Non per soldi, o notorietà o addirittura consensi. Lo faccio nella speranza – e se ci sono riuscito è ancora da vedere – di stabilire un legame onesto con qualcun altro. Di smuovere qualcuno. Di toccare qualcuno. Di far sentire qualcuno meno solo. Siamo tutti così isolati. Sempre più isolati e separati l’uno dall’altro. E credo che una bellissima opera d’arte possa unire le persone”.
Com’è nata l’idea di fare una serie animata e non una serie con persone in carne ossa? Che cosa ne sarebbe venuto fuori con attori veri?
“Innanzitutto, adoro l’animazione. Adoro lavorare con gli artisti. Penso che quello che fanno sia magico. Adoro anche il processo di animazione. Nel live-action, tutto accade nello stesso momento: recitazione, regia, illuminazione, ecc. Succede tutto in una volta. Nell’animazione, invece, ciascuno di questi componenti è segmentato e separato, il che rende più semplice regolare e affinare determinati momenti. Per prima cosa scrivi un grande episodio; lo progetti, lo dirigi e poi realizzi la colonna sonora e lo monti. Ognuno ha il proprio tempo e spazio assegnati. È fantastico per i maniaci del controllo come me, a cui piace essere coinvolto in ogni parte della creazione. L’altro motivo per cui amo l’animazione ha a che fare con il tipo di storie che mi piace raccontare. C’è qualcosa di disarmante nel combinare l’animazione con il realismo emotivo. Qualcosa che ti prende alla sprovvista. Ti aspetti uno spettacolo animato, qualcosa di ritmico come un cartone animato, frenetico e guidato dalle gag e dai bit, ma quello che stai ottenendo è in realtà una commedia drammatica, cinema d’autore. Una storia dalla risonanza emotiva. Trovo che la combinazione di questi due elementi sia efficace”.
C’è una cosa che mi chiedo sempre quando guardo certi film americani: perché, a un certo punto, quando certi personaggi diventano ricchi, cominciano solo ad andare a puttane, a fare feste, a drogarsi, a comprare macchine di lusso e via dicendo? Ed è un po’ quello che accade anche nella tua serie, anche se per motivi diversi. Si viene a sapere della fine del mondo, e la gente comincia a impazzire, ad andare in giro nuda, a dare sfogo a ogni fantasia sessuale, a viaggiare nei modi più assurdi e a fare cose assurde. È questa la vera natura dell’essere umano? Oppure queste persone non hanno mai saputo cosa volessero dalla vita, chi fossero?
“C’è sicuramente caos nella nostra serie, e penso che ci sia molto da dire sulla scorrettezza e sull’indecenza di fronte all’avvicinarsi della catastrofe, ma quello che volevamo creare, quasi a livello inconscio, è una lettera d’amore alla routine. Abbiamo voluto ideare un lavoro sulle comodità della monotonia, sulle commissioni e sugli obblighi, sulle cose – le cose piccole e invisibili – che ci tengono preoccupati. Perché è questo che ci tiene distratti, che ci impedisce di perdere la testa. Le cose che ci danno struttura, che ci sviano, che ci impediscono di essere sopraffatti e che ci trattengono dal farci le grandi e importanti domande su noi stessi. Naturalmente, questo è solo il punto di partenza, e lo spettacolo si sviluppa da lì, e alla fine ha più di un messaggio da trasmettere agli spettatori. Ma Carol inizia in gran parte come una lettera d’amore alla routine. Nonostante ciò, l’opera non giudica mai i personaggi che hanno scelto la strada dell’edonismo, dell’autoindulgenza o della ricerca del piacere. Lo spettacolo chiarisce che non esiste una strada giusta o sbagliata. Che tutte le strade sono valide. Che dipende solo dall’individuo. Carol cerca la ripetizione. La monotonia è la sua oasi, il suo porto nella tempesta”.
In questo periodo ho capito che sto bene quando scrivo, leggo, medito, quando faccio quello che amo, quando insegno, quando sto con i miei amici, che non mi servono tante cose, che mi piace poter essere utile per le persone. E tu, cosa hai scoperto ultimamente di te stesso? Cosa ha valore nella tua vita e cosa ti rende felice?
“Questa è una domanda difficile a cui rispondere. Penso che cambi continuamente e penso che la felicità, almeno per me, sia sempre fuori portata. È una cosa sfuggente, eterea, qualcosa che cerco costantemente di catturare ma che mi sfugge sempre. Detto questo, mi piacciono soprattutto le cose semplici della vita. Guardare film, leggere, fare passeggiate con il mio cane, passare il tempo con mia moglie. Stare a letto e dormire tutto il giorno. Queste sono le cose più preziose, i momenti più preziosi della mia vita”.
Carol tornerà? Mi piacerebbe rivederla… anche se in parte spero che non ci sarà un seguito. Il finale mi ha fatto rimanere un po’ male, ma poi ho capito che non poteva essere altrimenti. Era bello così. Era perfetto così. Doveva essere così.
“Quando abbiamo scritto Carol, volevamo che fosse una miniserie di 10 episodi. Non di più. Non di meno. Volevamo che Carol sembrasse 10 racconti, sembrasse 10 cortometraggi. Una parabola. Dieci puntate individuali che potrebbero esistere da sole ma che, se legate insieme, raccontano una storia completa e appagante, con un inizio, una parte centrale e una fine. Sarei soddisfatto e felice se non scrivessimo più episodi e la serie finisse con The Investigation. Per me, tra i tanti possibili, quello era il modo giusto per concludere la storia che stavamo raccontando, il modo giusto per catturare davvero ciò di cui parlava la serie nel profondo. C’è della poesia in questo, della bellezza, sono davvero orgoglioso di come è andata a finire”.
Articolo tratto dalla rivista culturale Pangea.news