Intervista a Steve Boyes, protagonista del documentario “In to the Okavango” del National Geographic

 In IL SETACCIO

Succede poche volte. Leggi un libro, vedi un film o un documentario, e ti piace talmente tanto che vorresti conoscere l’autore, il regista, l’attore, l’ideatore. Con i libri succede spesso che gli scrittori siano già morti da tempo, con i registi e gli attori non è certo semplice entrare in contatto, soprattutto se si tratta di gente di Hollywood (che poi non si sa mai). Quando ho visto il documentario del National Geographic Into the Okavango: l’ultimo paradiso – acclamato dalla critica, uscito nel 2018, visibile su Disney Plus, Amazon e altri canali, scritto, diretto e prodotto da Neil Gelinas – me ne sono talmente innamorata e mi sono talmente commossa da cercare sui social il protagonista di questa strepitosa avventura, il sudafricano Steve Boyes, biologo della conservazione, capo spedizione di questo viaggio alla foce dell’Okavango, in Angola, una zona denominata ‘il buco nero’. Gli esploratori hanno deciso di navigare il fiume Cuito per quattro mesi su canoe scavate nel legno, per scoprire lo stato di salute dell’Okavango.

Cerco Steve. Lo trovo. Gli scrivo, e gli dico che ho visto il suo film, che ho il mal d’Africa, che se ogni tot anni non ci torno sto male, che sono una giornalista e che vorrei fargli alcune domande. Non mi risponde per tre mesi. Ovviamente mi dico che è normale, non mi conosce, gli ho scritto cose troppo melense, da stalker, oppure è sperduto nella savana chissà dove. Poi un giorno arriva un suo messaggio Sounds good. Thanks so much. E mi dà la sua mail.

 

Steve, cosa sente dentro un uomo che decide di compiere un’avventura del genere? Cosa lo spinge?

Il termine di ogni spedizione, che sia dopo poche settimane o cinque mesi, è un momento triste, soprattutto al mattino presto, quando ci si prepara a partire per quello che sarà l’ultimo giorno sul fiume. Durante la spedizione cambi così tanto il tuo ritmo quotidiano, che il pensiero di guidare un’auto, fare la spesa, fare riunioni, vedere gli amici o semplicemente passare del tempo a casa, sembra estraneo e in qualche modo minacciosamente diverso. Dal 2010 fino all’ottobre del 2019, abbiamo percorso 9.770 km di esplorazione fluviale sulle nostre canoe scavate o mekoro, ispezionando scientificamente tutti i principali fiumi e canali nei bacini del fiume Okavango e Kwando. L’Okavango River Megatransect del 2015 mi ha cambiato la vita. Abbiamo viaggiato dal lago d’origine non documentato del fiume Cuito, affluente orientale del fiume Okavango, fino al lago Xau nel deserto del Kalahari, più di 480 km oltre il delta dell’Okavango. 121 giorni, 2.476 km, dalla sorgente alla sabbia. Dopo quattro mesi su un fiume con ippopotami e coccodrilli, diventi selvaggio fino al midollo, connesso al mondo che ti circonda. Questo stato di ‘natura selvaggia’ crea dipendenza e ti trasforma, e il completamento di una spedizione segna la fine di questa esperienza coinvolgente. La mattina dopo ti svegli pensando al prossimo fiume.

Cos’è per te il viaggio?

Trascorro molti mesi lontano dalla mia famiglia, ogni anno. Ho bambini piccoli, quindi è dura stare lontani e per loro sarebbe molto difficile raggiungermi. Il mio viaggio si divide in diverse fasi, tra cui spingermi in alcune delle località più remote dell’Africa per avviare spedizioni, volare in giro per il continente su jet privati con turisti e donatori, viaggiare per eventi di divulgazione in tutto il mondo. Il COVID-19 ha fermato tutto questo e per tutto il 2020 sono stato rinchiuso a casa con la mia famiglia, il che è stato un grande cambiamento. Ho imparato anche a vivere meglio a casa. Amo viaggiare sull’acqua. Un fiume è la metafora della vita. Sei in una canoa, il tuo percorso generale è predeterminato, ma incontrerai ostacoli, quindi devi concentrarti. Se si pagaia si va un po’ più veloce, ma senza pagaiare si arriva comunque. I fiumi ci insegnano ad abbandonare il nostro ego e a seguire il flusso. Se lo facessimo anche nella vita, saremmo molto più felici.

Ogni volta che vado in Africa mi sento a casa, e se non ci torno per un po’ di tempo mi assale una strana malinconia, come se mi mancasse qualcosa. L’Africa è davvero la culla di tutti noi, la nostra casa. Cosa le stiamo facendo?

È diventato molto difficile contestare che l’Africa è la culla dell’umanità, ma la maggior parte delle persone non sa elencare più di una manciata di paesi africani. Le persone in tutto il mondo sono genericamente affascinate dall’Africa e, di conseguenza, la maggior parte dei documentari sulla fauna selvatica sono girati in questo continente. La diaspora africana nel mondo ha incontrato per secoli il razzismo, lo sfruttamento e l’emarginazione. Questo è un segno del nostro atteggiamento nei confronti del continente da cui proveniamo tutti. Sfortunatamente, il riferimento del presidente Trump ai paesi africani come ‘paesi di merda’ è una visione condivisa da molte persone. Molti verranno in Africa per cacciare un leone o un elefante, ma non penseranno di aiutare la gente. Il futuro della conservazione, in qualsiasi parte del mondo, è locale. Il COVID-19 ci ha insegnato questo. L’Africa non può dipendere dagli aiuti o dall’esperienza straniera per salvare i suoi ultimi luoghi selvaggi e la sua iconica megafauna. Dobbiamo trovare soluzioni africane che risuonino a livello globale e motivino un movimento utile a salvare la culla dell’umanità dalla distruzione definitiva a causa dello sfruttamento e del debito non regolamentato. La deforestazione, gli incendi, il bracconaggio, il commercio di animali selvatici e la conversione dei terreni si stanno intensificando in tutto il continente e il mondo deve riconoscere che questa crescente minaccia è estesa al cambiamento climatico globale.

Cosa significa nascere e crescere nella culla dell’umanità, a contatto con quella natura selvaggia che se scompare in molti rischieranno di vederla solo nei film?

Sono un sudafricano di sesta generazione e sono orgoglioso di essere nato e di aver vissuto la mia vita in questo grande continente primordiale. I miei genitori erano ossessionati dalla natura e ci portavano spesso in parchi e luoghi selvaggi per poterla apprezzare e imparare a conoscere leoni, elefanti, leopardi, babbuini, ippopotami e tutto il resto. Io e mio fratello Chris ne siamo rimasti affascinati fin da subito e abbiamo incentrato la nostra vita sulla protezione di questi luoghi selvaggi a beneficio delle persone, della fauna selvatica, della biodiversità e degli ecosistemi. I miei figli sono il mio ponte verso il futuro, e non riesco a immaginarlo senza lande selvagge, elefanti e leoni che vagano liberamente, padroni del proprio destino. Abbiamo perso più di due terzi di tutta la fauna selvatica negli ultimi cinquant’anni. Due terzi di tutti gli animali che vivevano felicemente nel loro habitat naturale, nel 1970 se ne sono letteralmente andati. Ogni 7 minuti si estingue una specie, giorno e notte. In Africa un elefante viene ucciso in media ogni 15 minuti, un rinoceronte ogni 6 ore e un pangolino, il mammifero selvatico più commerciato al mondo, ogni 2 minuti. Questa carneficina è sostenuta dalla domanda globale di prodotti animali come avorio, scaglie di pangolino, corno di rinoceronte, ossa di leone e pelli di animali. La devastazione della fauna selvatica africana non è organizzata a livello locale, è l’influenza straniera a guidare questo commercio. Le pessime condizioni socioeconomiche della maggior parte dei paesi africani determinano che le comunità rurali debbano dipendere dalle risorse naturali per il carburante, i materiali da costruzione e il cibo. Questo può diventare insostenibile quando i mercati vengono aperti all’esportazione. Il mondo ha bisogno di definire le sue relazioni con l’Africa e riconoscere l’importanza fondamentale di questo enigmatico continente per il nostro passato e il nostro futuro collettivo.

Qual è stato il momento più difficile del vostro viaggio?

I momenti più difficili della spedizione sono quando si rimane bloccati da un ostacolo imprevisto come una cascata, rapide, blocchi di alberi o grandi raggruppamenti d’ippopotami. Queste circostanze esercitano un’enorme pressione sulla squadra perché si inizia a rimanere senza cibo e i progressi sono lenti e frustranti. Alla gente piace avere piani e obiettivi, ma, durante una spedizione su un fiume selvaggio non mappato, questo raramente è possibile. Il nostro peggior incidente è stato quando gli ippopotami ci hanno ribaltato le canoe. Oltre ad essere assolutamente terrificante e potenzialmente letale, c’era anche l’inconveniente di perdere le scarpe, il laptop o la fotocamera o tutto il resto. Va notato che questi incidenti non sono mai colpa dell’ippopotamo. È sempre causa di un errore umano dovuto dalla stanchezza o da un’esplosione di ego.

Nel mio articolo sul documentario ho scritto di te: “Steve Boyes è una specie di Fitzcarraldo che trasporta una canoa anziché una nave e che ci ricorda che Chi sogna può muovere le montagne”. Ti ci ritrovi?

Sì, sono un sognatore, mi piace dare al team una visione. A volte la squadra deve fare cose insolite. Non permettiamo di bere in compagnia, ma concediamo ai membri del team di portare del whisky o qualcos’altro da consumare nella propria tenda al tramonto, dopo il lavoro. Ci spostiamo ogni giorno, smontando l’intero campo al mattino per rimontarlo al pomeriggio. Tutti s’impegnano e si spingono continuamente al limite. Lo fanno perché mi rifiuto di fermarmi. Non si attraversano interi bacini fluviali con calma. Dopo aver lanciato l’Okavango River Megatransect del 2015, verso la fine di maggio, abbiamo trascorso 14 giorni trascinando sette canoe a pieno carico costeggiando il fiume, finché non era abbastanza grande da consentirci di navigare. Potevamo fare un chilometro al giorno al massimo ed era di una fatica mortale. Il mio orologio biometrico ha rilevato una frequenza cardiaca media per 9 ore di 134 battiti al minuto, indicandomi che avrei avuto bisogno di riposare per 143 ore! In pratica era come se stessi su un tapis roulant per 9 ore di fila, ma non siamo atleti, siamo esploratori.

…e ho pure paragonato il regista Neil Gelinas a Terrence Malick. Com’è stato lavorare con lui?

Neil Gelinas un giorno sarà riconosciuto al pari di Terrence Malick. Mi ha fatto guardare una selezione dei film di Malick prima d’iniziare le riprese del nostro documentario Into the Okavango: l’ultimo paradiso. Ha fatto un paio di cose rivoluzionarie in questo film, usando droni per tutte le riprese aeree ed entrando davvero nella psicologia dei suoi personaggi principali senza eccedere con le interviste. Neil si è conquistato l’amicizia di tutti ed è stato capace di raccontare storie autentiche. Aspettiamo con impazienza il suo prossimo progetto cinematografico.

Nell’articolo dedicato al film ho anche scritto: “Into the Okavango: l’ultimo paradiso ci pone di fronte ai grandi dilemmi dell’esistenza ma è come se ci aiutasse a trovare anche delle risposte: siamo qui, non sappiamo come e perché, né da dove veniamo, né se qualcuno o qualcosa ci ha creato, ma quello che possiamo fare è essere grati di tanta bellezza e non smettere mai di cercare, di esplorare, di conoscere, d’imparare”. Per te che cos’è stato e cosa significa oggi questo film?

Ci sono due temi principali nel film: ‘connessione’ e ‘diversità’. La cosa più speciale della vita sulla Terra sono le connessioni tra tutte le specie e tutte le forme di vita. L’esperienza umana nella natura selvaggia è il potere formativo che ha creato tutti noi, e quando vi attingiamo, diventiamo qualcosa di più che noi stessi, diventiamo sovrumani, parte della ‘supernatura’. Ogni giorno trascorso in esplorazione, a contatto con la natura, ti fa rendere conto che tutto è vivo e che la vita trascende fondamentalmente il tempo e lo spazio. Roccia, albero, aria, fiore, fiume, oceano, gatto, elefante, fossile, tu e io, siamo tutti vivi, e vibriamo con l’energia dell’universo. Tutto quello che dobbiamo fare è ascoltare con molta attenzione queste vibrazioni per sperimentare il potere dell’inizio del tempo. Ora, non sono una persona particolarmente religiosa o spirituale ma credo di aver incontrato il luogo di nascita della religione durante una spedizione nel deserto. Stare di fronte a un elefante lontano da qualsiasi luogo è quanto di più vicino potrò mai arrivare a Dio. Mosè, Buddha, Gesù, Maometto, gli insegnanti, i profeti e i mistici indù andarono tutti nella natura selvaggia, sulle montagne, nel deserto, per sedersi in silenzio e ascoltare i segreti che avrebbero guidato le loro civiltà per millenni. Entro nell’Okavango con il mio mokoro… Dovresti unirti a me un giorno. La bellezza che sperimentiamo in natura spesso è legata a quanto è antico e incontaminato il paesaggio. L’esperienza di stupore e meraviglia nella natura selvaggia è quella di uno sguardo nella preistoria, del sentire la straordinaria potenza del mondo di allora e di oggi.

A quando un’altra spedizione?

Faccio diverse spedizioni ogni anno, ma il COVID-19 ha messo fine a quella del marzo 2020, subito dopo il mio ritorno dagli altopiani angolani. Con la prossima tornerò lassù, navigando fino alla fonte del fiume Tempue. Verso la fine dell’anno vorremmo lanciare lo Zambesi River Megatransect, dalla sorgente, non ancora mappata, del fiume Lungue-Bungo. Ci vorranno quattro anni per completare le quattro sezioni di questo sistema fluviale transcontinentale. L’Okavango River Megatransect del 2015 era una spedizione transfrontaliera che attraversava il bacino fluviale attraverso tre confini; il fiume Zambesi invece attraversa cinque paesi ed è transcontinentale. Non vediamo l’ora d’intraprendere questa nuova esperienza lungo le parti più remote del grande fiume.

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Steve Boyes è sudafricano ed è direttore di diverse aziende che si occupano di media digitali e viaggi in Africa. Esperto ricercatore della fauna selvatica e ornitologo con oltre 15 pubblicazioni scientifiche peer-reviewed e oltre 35 articoli di divulgazione. Ha presentato seminari a Berkeley, Oxford, Cambridge, allo Zoo del Bronx e molte altre università e in incontri pubblici. È un fundraiser attivo per progetti di conservazione. È biologo della conservazione e membro del National Geographic. Fondatore e presidente di The Wild Bird Trust e leader del National Geographic Okavango Wilderness Project. Con una passione per la natura selvaggia e la reintegrazione, lavora per salvaguardare il delta dell’Okavango guidando spedizioni per approfondire la conoscenza dell’ecosistema e lavorando con la comunità locale e i leader del governo. Questo lavoro è fondamentale per intraprendere un processo guidato dalla comunità stessa, capace di creare una rete di zone protette in tutta l’area del sud-est dell’Angola.

Ecco alcuni link utili:

➢           National Geographic Fellow: https://www.nationalgeographic.org/find-explorers/r-steve-boyes

➢           https://www.leadingauthorities.com/uk/speakers/steve-boyes

➢           Senior TED Fellow: https://www.ted.com/speakers/steve_boyes

➢           Research Associate at the Percy FitzPatrick Institute for African Ornithology: http://www.fitzpatrick.uct.ac.za/fitz/staff/research/boyes

➢           Project Leader of the National Geographic Okavango Wilderness Project: https://www.nationalgeographic.org/projects/okavango/

➢           2019 National Geographic Rolex Explorer of the Year: https://www.rolex.org/environment/perpetual-planet/okavango-explorer-of-the-year-2019

➢           Expedition Expert for National Geographic Expeditions: https://www.nationalgeographic.com/expeditions/experts/steve-boyes/

➢           Founder and Executive Chairman of the Wild Bird Trust: https://www.facebook.com/wildbirdtrust

 

 

 

 

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