Trent’anni di Thelma & Louise. Il prezzo della libertà.
Trent’anni di Thelma & Louise. Quando sento il brano della scena finale (tema che accompagna varie scene del film) composto da Hans Zimmer, mi commuovo. Sempre. Lo sento e risento da decenni. Quel riff di chitarra s’infrange nell’anima. Si dispiega nell’etere e sembra dare addirittura risposte.
Thelma & Louise è un film amato da molti. Un cult. Per me rappresenta uno stile di vita, un inno alla libertà, al viaggio, all’emancipazione, alla morte che diventa la scelta migliore quando vivere è una prigione. Meglio libere e in perenne cammino. Meglio avere la possibilità di viaggiare e ascoltare la musica che ami guidando nel deserto. E fermarsi, nel silenzio, a guardare l’alba, e sentirsi vivi, per la prima volta.
Quando sono andata negli Stati Uniti ho fatto un viaggio on the road fino al Dead Horse Point, il canyon nello Utah dove è stata girata la scena finale di Thelma & Louise. Tutti credono che sia il Grand Canyon, perché anche le protagoniste quando se lo trovano di fronte credono di essere davvero al cospetto del “fottuto Grand Canyon”, ma in realtà si lanciano nel vuoto con l’auto nel Dead Horse Point. E non a caso, perché pochi sanno che quel luogo è famoso per una particolare leggenda.
La storia narra che lì vivessero dei mustang selvaggi bellissimi. Nell’Ottocento arrivarono i cowboy alla conquista dell’ovest, e scoprirono sia quel canyon stupendo sia i cavalli, ed ebbero il desiderio di catturarli e domarli, per poi venderli o usarli per il trasporto. I cavalli però erano selvaggi, abituati alla libertà, non era facile acciuffarli. Un giorno i cowboy pianificarono di spingerli fino al bordo di uno strapiombo. Là non avrebbero avuto via di scampo, si sarebbero fatti prendere per forza. Ne radunarono parecchi, e credettero di avere la vittoria in tasca. I cavalli erano in trappola, spaventati, ma piuttosto che essere catturati e rinunciare per sempre alla libertà, si gettarono nel vuoto preferendo la morte. Da quel giorno il canyon ebbe il nome di Dead Horse Point.
Meglio deceduti che schiavi. Meglio andarsene se non puoi decidere di vivere come vuoi. Meglio godere fino all’ultimo e fare un’abbuffata, un’indigestione di vita con il sole tra i capelli, senza procreare, senza mariti, on the road, spogliandosi di tutto, senza trucco, senza gioielli, senza fare la casalinga o la cameriera, senza chiedere il permesso agli uomini, senza essere picchiata. Meglio senza.
Anche perché chi ha subito abusi, soprusi e violenza -come Thelma e Louise- non è detto che riesca a vivere come la società impone, non è detto che desideri quello che sembrano desiderare quelli che dicono di “stare bene”; non è detto che la morte gli sia insopportabile come ai più, non è detto che vogliano continuare a sentire tutto. E non è detto che sia storto, sbagliato, rotto, spezzato, interrotto. Non è detto.
“Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere.” Come scriveva Josephine Hart. E per un po’ Thelma e Louise sopravvivono come delle vere dure e diventano pericolose. Vanno avanti, nonostante tutto, ma alle loro condizioni, trasformandosi in due giustiziere con “il talento dei matti”, cui non basta sentirsi dire frasi carine dagli uomini per essere felici.
Thelma & Louise è un film sul dolore, sui sogni infranti, sulla difficoltà non solo di essere donna ma di essere umano. E a volte basta un weekend per cambiare vita, e basta una sera per rovinare tutto se la rabbia prende il sopravvento. Thelma & Louise volevano essere amate, volevano fiducia e rispetto, non chiedevano altro.
Dopo l’omicidio potevano tornare e confessare, ma tornare a cosa? Da chi? Quando ti guardi indietro e vedi solo una vita monotona dove se non vieni picchiata dal marito devi fare la cameriera in balìa del tipico uomo che ti ama ma non ti ama poi sì poi no poi forse chissà. E quando ti chiede di sposarti è troppo tardi.
E allora vorresti gridare e spaccare tutto. Vorresti trovare qualcuno capace di ascoltarti e capire, e alla fine lo trovi nell’alba, che non ha pretese, non ti possiede e non ti urlerà mai a un centimetro dalla faccia. Il cielo sopra al deserto come unica via, mai geloso, mai superficiale, che ti guarda partecipare al gioco del mondo senza pregiudizi.
È inutile vivere fino a ottant’anni se non hai mai vissuto veramente, se non hai sentito, sofferto e goduto. Se non hai scopato come e quanto volevi. Se non hai visto il mondo. Se non hai mai trasgredito. Meglio andare contro le regole, contro tutti, anche se là sotto sai che c’è l’abisso. Perché tanto alla fine lo strapiombo è lì che ci aspetta comunque. La terra non vede l’ora d’ingoiarci per l’eternità, ma quanti saranno quelli capaci di morire con il sorriso e senza troppi rimpianti? Quanti hanno già scelto la prigione invece della libertà? Quanti si sono lanciati nella vita come Thelma & Louise nei loro ultimi giorni? Quanti di noi sanno vivere? Quanti, prima di morire, baceranno sulle labbra l’unica persona in grado di capirli e di amarli?
Quando non c’è qualcosa cui tornare, rimane solo il futuro come unico posto dove andare. E se in fondo a quel futuro c’è un burrone… be’, l’importante è sentirsi finalmente a casa.
Articolo tratto da L’intellettuale dissidente