Oggi a Kurt Cobain non darebbero un palco. Nell’epoca dell’ossessione salutista non c’è più spazio per l’arista maledetto. Discorso contro il delirio di onnipotenza (gluten free) dell’Occidente
Penso che oggi anche a uno come Kurt Cobain, e a tanti come lui, sarebbe negato il diritto di esprimersi. Pure ai suoi tempi c’era chi lo criticava e gridava allo scandalo a causa dei suoi testi, quando cantava “Dio è gay” e “Stuprami, stuprami amico mio”. Ma nonostante questo non si è mai arrivati alla censura.
I tempi cambiano, tutto cambia, è un continuo divenire. È l’impermanenza, bellezza, e tu non ci puoi far niente.
Però è ancora bello riflettere sulle cose, fare dei paragoni, guardarsi indietro, vedersi figlia degli anni ’90, e rendersi conto che oggi, per esempio, il mito sesso droga e rock and roll non esiste quasi più – anche se in parte, forse, gli unici paladini di questo slogan sono davvero i trapper.
Ma credo che tornerà, perché tutto è ciclico, forse pure l’universo.
Negli anni ’80 ci fu un periodo di euforia e leggerezza, che come disse David Lee Roth, frontman dei Van Halen, fu rovinato proprio da quel depresso di Cobain: “Dico solo due parole: Kurt Cobain! Prima suonavo davanti a 12.000 persone, poi son passato a 1.200. Dagli stadi ai casinò, alle fiere, ai localini. È una faccenda che ti porta a riflettere molto sui tuoi valori. Dopo Cobain il divertimento non è più stato divertente”. Credo che quell’epoca sia finita definitivamente con la morte di Amy Winehouse nel 2011. Fu lei a portarsi via per sempre quell’immagine mitica dell’artista drogato alcolizzato e dannato.
Le morti di Dolores O’Riordan dei Cranberries, Chris Cornell dei Soundgraden, Chester Bennington dei Linkin Park, Keith Flynt dei Prodigy, forse sono il risultato del cambiamento di un mondo che non li avrebbe più capiti e apprezzati, e allora tanto vale farsi fuori.
Oggi viviamo un periodo all’insegna dell’ipersalutismo, dell’iperbenessere, dell’iperossessione per il cibo e per l’ambiente. Questa è l’epoca della salute, dello yoga, della meditazione, della mindfulness, dei massaggi, delle campane tibetane, dell’ayurveda, delle diete, dei vegetariani, dei vegani…
Questa è un’epoca in cui un’attrice come Gwyneth Paltrow diventa guru del benessere e vende candele con l’odore della sua vagina; dove Beppe Sala, sindaco di Milano, vuole impedire di fumare all’aperto nella sua città entro il 2030; dove gli animali sono considerati più importanti degli uomini; dove si piange per i Koala in Australia ma non per i bambini del Benin; dove si pensa che una carota abbia dei sentimenti.
E ci sta, ognuno è libero di vivere come vuole, finché ciò non va a inficiare la libertà di scelta dell’individuo, come poter fumare almeno negli spazi aperti e mangiare la nutella pure se si pratica yoga e mindfulness, o volere l’eutanasia se si dovesse rimanere bloccati a letto ed essere contro l’accanimento terapeutico.
Non illudiamoci di essere immortali. Della morte ne abbiamo già fatto un tabù.
A volte trovo strano e un po’ inquietante quest’accanimento salutista e l’ossessione per la vita. Non bisognerebbe mai esagerare, mai far diventare qualcosa un fanatismo, perché il rischio poi è di dar vita a distorsioni e anche a disturbi come l’ortoressia (da Wikipedia: termine che definisce un disturbo alimentare proposto da alcuni medici e psichiatri, descritto come una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche.)
Certo che voglio che ci sia la possibilità per tutti di mangiare bene, ma vorrei trovare ancora McDonald’s per la strada, anche se io stessa non mangio da McDonald’s da più di dieci anni.
Vale oggi più che mai la splendida battuta di Woody Allen: “Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana di più e in quella settimana pioverà a dirotto”. C’è chi semplicemente vuole vivere tranquillo e godersela, senza lo stress di arrivare per forza a novant’anni, seguendo standard che stanno diventando nuove imposizioni.
È soprattutto quando viaggio in Oriente, in Africa o in Medio Oriente che mi accorgo che visti da lontano sembriamo aver perso il senno. Recentemente sono andata al Cairo, città che ti devasta polmoni e gola per lo smog, dalla quale quando torni devi quasi bruciare o buttare i vestiti che hai indossato perché lavarli non basta. Le periferie del Cairo sono zeppe di cani che con le pecore, gli asini, i polli, e gli umani rovistano negli immensi cumuli d’immondizia a cielo aperto che si trovano lungo le rive del Nilo. Un fiume che da tempo immemore viene usato come fogna e discarica, e dove solo nel delta vivono più di 60 milioni di persone. Un po’ come il sacro Gange, uno dei fiumi più inquinati al mondo, dove gli indiani si lavano, pregano, nuotano, defecano, e gettano spazzatura, rifiuti industriali, ossa e ceneri dei morti.
Andare al Cairo è un po’ come andare a Nuova Delhi o a Kathmandu, città che ti fanno pensare che Greta Thunberg stia combattendo contro i mulini a vento.
Perché bisogna vedere anche queste città e non solo New York o Stoccolma per conoscere il mondo, perché la maggior parte della popolazione mondiale vive come o molto peggio degli abitanti del Cairo.
Altro che Plastic free, altro che Veggie burger. Visti da fuori sembriamo davvero dei viziati figli di papà. Dovremmo arrenderci e lasciare le cose come stanno? No, però dovremmo ridimensionare le nostre aspettative e rinunciare a molti dei nostri privilegi per diminuire le disuguaglianze e cambiare la situazione climatica.
Siamo pronti per farlo?
Cosa vogliamo diventare?
Dove vogliamo andare?
Amo il Medio Oriente, ho come un richiamo per queste terre di sabbia e polvere, eppure la maggior parte dei suoi abitanti vive in condizioni allucinanti agli occhi di un occidentale.
Allora perché questo richiamo? Perché non sono schifata quando torno marcita dentro per lo smog di queste immense città? Forse perché siamo noi quelli che vivono dentro un cartone animato, dentro un Truman Show, che ci ha fatto dimenticare chi siamo, da dove veniamo, e che la polvere ci appartiene?
Nel Terzo mondo un cane è un cane e non un figlio, un agnello è un agnello e non un animale da compagnia. I ragazzini non vanno a scuola non perché scioperano per il clima ma perché vendono la frutta sui carretti in strade pericolose, senza scarpe, sporchi, o portano in giro turisti sugli asinelli o gonfiano le gomme delle auto. E no, non ci sarà nessuna manifestazione per loro per provare a salvarli.
Ma alla fine, forse, non ci indigniamo profondamente non per cinismo ed egoismo, ma perché viviamo in un universo basato sulla meccanica quantistica, in un mondo probabilistico, dove a quanto pare è solo un caso che io sia nata in Italia e un’altra donna in Iran, dove quest’ultima sarebbe lapidata se andasse in giro vestita come vado io.
È tutto un grande gioco, un’illusione della mente.
Ma se così non fosse, vi pare possibile che ancora crediamo in un mondo globale unico, tutto uguale e felice, convinti che tutti vorranno e potranno permettersi il nostro stile di vita insostenibile, preferibilmente gluten free? Possibile che siamo così stolti? Quello che noi chiamiamo natura e definiamo delle sane rinunce in nome del benessere, spesso in realtà è contro la natura degli esseri umani, portati ad agglomerarsi in spazi sempre più compressi e vivere da termiti all’inseguimento del minimo profitto. Siamo animali sociali, e siamo troppi, sempre di più, e non possiamo pensare di prendere a modello lo stile di vita di paesi nordici come l’Islanda, con 300.000 abitanti in tutto, e sperare che città come Nuova Delhi, con più di 20 milioni di abitanti, seguano il loro esempio, quando oltretutto pochi sanno che gli indiani vivono così non perché sono stupidi o sporchi, ma perché per loro la vita è davvero un’illusione, è un passaggio, ed è solo sofferenza, e la massima ambizione, infatti, è non reincarnarsi più e ricongiungersi con Brahmā. Quindi, pretendere un cambiamento radicale dal subcontinente indiano, per esempio, vorrebbe dire dover sradicare una millenaria credenza religiosa. E queste cose me le disse un indiano a Varanasi, davanti a dei cadaveri che bruciavano.
Ed è la stessa rispettabile credenza che porta i musulmani a sapersi accontentare di una vita modesta o di povertà perché tanto in paradiso sanno che ad attenderli ci saranno cibarie, lusso e vergini a volontà. Non è che noi occidentali ci siamo attaccati con spasmodica avidità a questo mondo e a questa vita perché ormai siamo dei senza Dio, e non crediamo più per niente o molto poco in un al di là?
Ma la verità è che non frega a nessuno di come si vive in Africa o in India. Siamo animaletti in un universo inflazionario, dove forse i buchi neri potrebbero condurci in altri universi, e quindi forse siamo animaletti in un minuscolo universo dentro ad altri infiniti universi e così all’infinito, o forse c’è davvero la Resurrezione, chi può dirlo.
Alla fine, la politica, il calcio, la fede, il salutismo, la cultura, l’ambientalismo, sono tutti passatempi che ci tengono occupati per non pensare proprio all’assurdità dell’universo in cui ci troviamo. E va bene così.
Prima o poi capiremo che la vita sulla terra non sarà mai per tutti come una foto Instagram di Chiara Ferragni, e che crederlo e sperarlo sia la più grande ipocrisia della storia.
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