Mommy, siamo nati per morire
Esci e ci metti un po’ a riprenderti. Certi commentano che neanche hanno capito bene quello che hanno visto. Torni alla tua vita, ma non puoi farlo subito, ci metti un po’ a ricominciare a parlare di cose di tutti i giorni, anzi, per un’ora o non parli o parli solo del film. Torni a casa e mica ce la fai ad andare a dormire subito, mica ce la fai a restare solo con il buio, i tuoi pensieri, il tuo passato. E allora ti metti a scrivere, se puoi e se sei abituato, perché non puoi fare altro, perché ti salva e ti ha sempre salvato, per espiare, per sfogarti, per provare a distrarti, perché quello che hai visto fa troppo male. Fai fatica pure a respirare, ti guardi intorno spaesato, il mondo è ostile e ti senti ripiombare in quel malessere che avresti pensato di vivere solo durante l’adolescenza, anche se ora sei adulto e felice. E invece eccolo lì, è lì ed è sempre stato lì, come un animale selvaggio in letargo, il male di vivere, e guai a risvegliarlo. Ma Xavier Dolan lo risveglia eccome, e ti ci fa fare i conti, volente o nolente, che tu sia già ormai un genitore, oppure un figlio, un uomo o un ragazzo. Torni a casa e fai fatica a dormire… Bastardo… E c’ha vinto pure il premio della giuria a Cannes nel 2014 per farci del male.
Mommy è un film che ti ricorda che tutti, ma proprio tutti, possono toccare il fondo e ti fa passar la voglia di dare la vita perché è già troppo difficile stare al mondo per se stessi figuriamoci fare il genitore. Se poi il figlio in questione ti esce storto, mezzo matto, non ne parliamo.
Un regista, Dolan, che per fare un film del genere non poteva che essere un post adolescente, un ragazzo di venticinque anni, sì, solo venticinque anni, ma che sa raccontare, che sa vedere, che ha qualcosa da dire. Perché per fare un film così importante e originale o sei Bergman o sei uno che ha appena finito l’adolescenza e le questioni della vita le vive in maniera intensa, forte, come solo un giovane sa fare. Rymond Carver nel suo libro “Il mestiere di scrivere”, a un certo punto racconta che in uno dei suoi saggi Flannery O’Connor dice che non c’è bisogno che accada molto altro nella vita di uno scrittore dopo il compimento del ventesimo anno. Moltissime delle cose che fanno il narrare sono già accadute allo scrittore prima di quel tempo. Più che abbastanza, dice. Abbastanza da essere sufficienti allo scrittore per il resto della sua vita creativa. Questo non è vero per Carver, che invece ritiene che la maggior parte del “materiale” narrativo gli si sia presentato dopo i vent’anni, dopo essersi sposato, dopo la nascita dei suoi figli, ma credo invece che valga molto per il nostro Dolan. Un ragazzo, oltretutto, che non solo ci racconta di un adolescente mentalmente disturbato, ma racconta di una donna, il punto di vista di una madre, ruolo in cui non si troverà mai ed è questo che fa di lui un artista.
Attori ineccepibili, dai protagonisti a quelli con ruoli minori. Un’Anne Dorval strepitosa, che nelle poche parti esilaranti e caciarone ci ha ricordato Whoopi Goldberg in Ghost che infatti vinse l’Oscar nel ’91 come miglior attrice non protagonista.
In Mommy ci si può immedesimare oppure no, non è questo il punto, sta di fatto che a tutti prenderà lo stomaco e lo ribalterà, anzi, lo asporterà come in un’operazione chirurgica senza anestesia. È un bad trip. Una sbornia da smaltire, una pastiglia calata che prende malissimo, una pera di eroina che rischia di farti rimanere stecchito. Ti lascia il down addosso, ti lascia dell’ansia che sembra volerti mangiare vivo.
La trama? Una madre alle prese con un figlio problematico affetto dal deficit d’attenzione, violento, pericoloso, ecco tutto. Nulla di nuovo, nulla che non sia stato trattato da molti, ma non così.
Le parolacce si sprecano, di follia ce n’è per tutti, così come anche d’amore e d’amicizia. Suzanne Clément/Kyla, è la dirimpettaia in stile casalinga disperata che ha un ruolo fondamentale nella vita della Mommy Diane e del figlio Steve, che diventa la migliore amica, la seconda madre, in uno scambio di umanità che la riporta in vita, perché è lei stessa ad avere non pochi problemi in quella casa dall’altra parte della strada che sembra risucchiarla.
Alcol, sigarette, incesto, disperazione allo stato puro. E come se non bastasse pure la povertà, la miseria, l’umiliazione, la malattia, a fare da contorno a una vita difficile che non ti lascia scampo, che spesso sembra proprio accanirsi, dove nessuno cerca il conforto di Dio. La vita è tutta lì, a volte. Ma Diane è una donna forte e che gli ride in faccia alla vita, non si capisce se per cinismo, per tenacia, per ironia, per ignoranza o perché è sempre capace di cogliere il lato positivo, rimuovendo o cercando di rimuovere tutte le cose avverse.
Un montaggio formidabile, così come la fotografia. Il tormento racchiuso in una specie di 4:3, soffocante, stretto in un martirio tra due attimi di gioia, espansi e utopici, in 16:9. Uno reale, breve ma reale, l’altro solo sognato. Perché una madre non desidera altro per il proprio figlio che vederlo studiare, laurearsi, sposarsi, fare un figlio e poi magari invece ti tocca uno squinternato, un tossico, un handicappato, di cui dovrà avere cura, senza poter fare altro che amarlo incondizionatamente, senza scelta, perché è più forte di lei e sarà per sempre, perché è un tipo d’amore che non passa, che non affievolisce, che ti consuma senza controllo, perché lo guardi e vedi te stessa e lui ti guarda e vede se stesso, una cosa sola, simbiotici fin dalla nascita, una squadra, proprio come i due protagonisti, Diane e Steve, il superbo Antoine-Olivier Pilon. Solo loro possono capire, come due eletti. Difficile da comprendere per un padre solo evocato.
Quando il film finisce non riesci ad alzarti dalla poltrona. Ti tocca sentire “Born to Die” di Lana Del Rey fino alla fine, che ti piaccia o meno, perché non riesci a muoverti. Ottima anche la scelta musicale, “White Flag” di Dido, “Colorblind” dei Counting Crows, “Wonderwall” degli Oasis, la colonna sonora è sempre importante e qui è inserita nei momenti giusti al posto giusto.
Non manca niente a questo film, che ti riporta con i piedi per terra, ti sbatte in faccia la realtà, quella dura, quella che ti ricorda che la vita, le persone, soprattutto quelle care, sono le stesse che possono farti più male di tutte.
Mommy è una madre sensibile, che non ha potuto studiare, farsi una vita, essere indipendente e che ci prova solo ora che il marito non c’è più e non sa da che parte cominciare. Mommy è una bella donna sexy, che sfiorisce verso la fine del film solo quando anche la speranza l’abbandona. D’improvviso è brutta, vecchia. Basta un grosso dispiacere per farti diventare i capelli bianchi in un giorno, soprattutto se si tratta di tuo figlio.
Mommy è la madre di tutti noi, che pregava che non ci succedesse niente, che ci amava e sopportava anche quando volevamo distruggere, uccidere, ucciderci, ucciderla.
Mommy è la mamma da cui non ci si sente mai amati abbastanza, ma che s’invoca in punto di morte anche quando si avranno ottant’anni.
Mommy sono io. Perché se non fosse stato per me e per la mia forza di volontà, per la mia voglia d vivere, la mia curiosità, ora non sarei qui. Quindi grazie a me stessa, soprattutto e più di tutti, perché crescendo non si può far altro che essere per prima cosa i genitori amorevoli di se stessi per vivere felici.
Articolo tratto da Jaymag
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