Brandon Flowers dei The Killes, l’intervista
I Killers erano apprezzati e ballati anche dal popolo della dark music agli inizi del 2000. Ricordo perfettamente al Rainbow Club di Milano quando Nicola, lo storico Dj del locale, a un certo punto della serata del venerdì metteva “Somebody told me”, brano che molti neanche ancora sapevano bene a chi appartenesse. Poi ci ha pensato Mtv a farla conoscere a tutti, ma proprio tutti. Ma il popolo dark, buongustaio da sempre, aveva eletto i Killers a nuovi paladini del movimento. Quelle tastiere, quella batteria, erano perfette da ballare in quel modo unico e inconfondibile che solo i darkettoni DOC conoscono. Un ondeggiare lento, i piedi che si muovono per tutta la durata del brano nello stesso modo, toccandosi leggermente tra loro, avanti e indietro, avanti e indietro, le braccia scattose. Insomma, forse soltanto per qualche mese, fino all’uscita del singolo successivo, i Killers sono stati “dark”. Poi si è scoperto che erano anche rock, anche pop, anche elettronici, e il popolo dark li ha abbandonati ben presto, e i Killers sono diventati famosi in tutto il mondo, sfornando un successo dopo l’altro.
E Brandon che fa quando i Killers fanno una pausa? Si mette a fare dischi da solo, perché fermo non ci sa stare.
Siamo arrivati al Fabrique che stava ancora facendo il soundcheck, in scaletta anche “I can change”, che a un certo punto si trasforma in “Smalltown Boy” dei Bronski Beat (Jimmy Sommerville ringrazia). Le prove proseguono per altri venti minuti, poi Flowers arriva, timido e sorridente. Saluta, si accomoda, e inizia a chiacchierare con noi come fosse un amico, con quel suo forte accento americano. Se il disco s’intitola “The disered effect”, allora qual è l’effetto desiderato sulle persone che lo sentiranno, cosa speri? Gli chiedo. Sorride, gli piace il gioco di parole e dice: “La mia intenzione non è quella di raccogliere nuovi fan, però se ci sono giovani ascoltatori che hanno voglia di seguirmi nel mio percorso ben vengano. Ormai sono sulla scena da undici, dodici anni. Crescere insieme sentirsi in armonia con queste canzoni, questo spero, nella speranza di dire qualche volta la verità e qualche volta intrattenere.
“Flamingo”, il suo primo disco solista, è del 2010, ed è successa la stessa cosa: “Questo album è nato nelle stesse circostanze del primo. I Killers sono in pausa, e io vado avanti per conto mio. Però è un altro disco, c’è un produttore diverso, diversi musicisti, in Flamingo c’era Stuart Price che aveva già lavorato con i Killers. L’obiettivo di “The desired effect” è la semplicità, il Santo Graal della musica. Non è bene lavorare troppo le cose, come nella vita, ma a volte lo faccio e mi sento in colpa. Però ci sono canzoni in questo disco dove sono riuscito a essere semplice, ed è un bene.”
Ma alla fine, questi The Killers, sono gelosi dei tuoi lavori da solista? “Sì, a volte forse un po’. Sia chiaro però che non lo faccio per avere attenzione, lo faccio perché è quello che voglio fare. Ci supportiamo a vicenda in realtà. Non è che canto perché devo fare musica, io amo la musica, devo amarla e continuo a tenere la fiamma accesa. E poi comunque ci sono canzoni che ho presentato ai Killers e che non sono piaciute, come “Still want you”, e “Diggin’ up the heart”, buone canzoni che scavano nel cuore, ma va bene così… E poi se i Killers si prendono pause così lunghe, io che ci posso fare? Siamo una strana band. Non riusciamo a essere produttivi come i Coldplay, per esempio, che a volte mi trovo a invidiare…” E allora entra nei Coldplay! “Effettivamente, se non puoi batterli unisciti a loro (ride)! Tutte le band sono diverse, devo rispettare quello che vogliono i Killers.”
È che Brandon è un entusiasta, uno che dice di avere lo stesso desiderio di quando aveva diciotto anni. Lui vuole scrivere canzoni, solo scrivere, e scrivere meglio che può, e spera che questa cosa non cambi mai. Perché se uno pensa al successo commerciale e basta, fa un grande errore. Lui prova a dare il meglio e a fare la musica che gli piace. Ed è impossibile separare Brandon Flowers dal Brandon dei the Killers. Gran parte della sua identità sono i Killers, ed è grato per questo, è così. E poi è stato fortunato, perché a differenza delle band di oggi, che fanno fatica, e alle quali non ha consigli da dare, lui un piede nella porta del mondo discografico ce l’ha messo giusto in tempo, poco prima che iniziasse l’era digitale. Noi qui ci lamentiamo, ma Brandon ci racconta che anche in America non ci sono più certe etichette, le rock radio, e secondo lui è piuttosto spaventoso. Ci sono i live, dato che di dischi non se ne vendono più, e le etichette fanno degli accordi che chiamano a 360°, una pazzia, ma non è il suo caso.
Ma cosa c’è in questo disco che a un primo superficiale ascolto potrebbe non essere colto? “Bella domanda, questa cosa succede con un sacco di dischi, se tu ci scivoli sopra ti perdi molte cose, la piena esperienza e il messaggio. Un esempio estremo può essere la canzone “Lonely town”, che sembra una canzone d’amore ma il realtà parla di uno stalker. A un primo ascolto può sembrare qualcosa di diverso, perché nel testo lui dice “Now I’m standing outside your house
And I’m wondering, Baby
Do you hear the phone when I call?
Do you feel the thud when I fall?
Do you hear the crack when I break?…”
Senti Brandon, però te lo dobbiamo chiedere, ma questa spasmodica passione per il sound anni ’80, perché? Perché in fondo sei figlio degli anni ’80? “Perché a te non piace?” Lo adoro, per carità! “Però, sì, magari è perché sono nato nel 1981 e per i primi anni della mia vita non ho fatto che ascoltare musica degli anni ’80. Però dai, “The dreams come true” e “I still want you”, non sono così anni ’80, secondo me. Le tastiere che usiamo sono autentiche, U2 e Depeche Mode, in quegli anni, usavano le stesse tastiere che usiamo noi su questo disco.”
Ok, ok, chiaro. Il ragazzo ama gli anni ’80 e guai a farglielo notare. D’altronde, è il suo stile, è quello che gli piace. Infatti non era una critica la nostra, ma una curiosità. È proprio vero, come cantava qualcuno: “Non si esce vivi dagli anni ‘80…”